La retorica non aiuta il lavoro. Il 1° Maggio è lotta senza quartiere allo sfruttamento
Da troppo tempo intorno alla giornata di lotta del 1° Maggio si gioca la partita delle buone intenzioni e dei finti mea culpa. Ogni anno coloro che più di ogni altro hanno enormi responsabilità sul disastro occupazionale - che la pandemia ha aggravato, non creato - sulla scarsa produttività del sistema Paese - che discende direttamente da scelte strutturali e non dagli scansafatiche come vogliono fare credere - sull'aumento costante e geometrico degli infortuni e delle morti sul lavoro, prendono carta e penna e provano a disegnare un mondo del lavoro fantastico in cui cambia tutto per non cambiare nulla.
C'è un termine preciso che si è cercato di nascondere in ogni modo, evitando di pronunciarlo, ed è “sfruttamento”. È lo sfruttamento, che si manifesta in forme diverse ma che cresce di intensità e dilaga non solo nei vecchi e conosciuti settori storici, dai campi alle officine, dove non è mai stato davvero domato, ma oggi anche nei settori di nuova generazione che vanno assumendo sempre più valore strategico per l'accumulazione e per la competizione.
Salire sui palchi del 1° Maggio, magari ritagliandosi uno spazietto tra cantanti e artisti, per gridare “Viva il 1° Maggio!” può forse salvare la coscienza di qualche sindacalista rintanato da tempo nei salotti e davanti alle telecamere, ma non modifica in nulla lo stato delle cose presente.
Lo sfruttamento si combatte giorno dopo giorno nei campi, nelle fabbriche, negli uffici, nelle strade e nei magazzini. Solo chi pratica il conflitto contro il capitale e lo sfruttamento ha diritto di parola. Gli altri, almeno per un giorno, tacciano.
Unione Sindacale di Base